Negli anni 60 i pazienti con insufficienza renale cronica si presentavano con sintomi di estrema stanchezza, dovuti alla severa anemia, associata ad una progressiva ritenzione di tossine uremiche che , in mancanza di terapia depurativa, sfociava in quello che veniva definito “coma uremico” ed erroneamente attribuito all’aumento della “azotemia”. In realtà si vide che il coma era causato da “acidosi metabolica” dovuto alla notevole riduzione dei bicarbonati nel sangue e che bastava un’infusione endovenosa di bicarbonato di sodio per far uscire i pazienti dal coma  e pochi grammi di bicarbonato di sodio al giorno, per bocca per  evitare che i pazienti ripiombassero in coma. Tuttavia, il trattamento dell’anemia risultava più complicato, ed erano spesso necessarie ripetute trasfusioni per consentire un’anemia compatibile con la sola sopravvivenza, ma con una pessima qualità di vita. Ad aggiungere problema a problema, le continue trasfusioni causavano enorme accumulo di ferro, specie nel fegato e nella milza, ferro che doveva essere rimosso con chelanti del ferro, per evitare i danni d’organo da eccessivo accumulo. A loro volta i chelanti del ferro provocavano altri seri problemi clinici. Si può quindi immaginare l’enorme entusiasmo con cui fu accolta da medici, infermieri e poi dai pazienti, la possibilità di poter utilizzare l’eritropoietina ricombinante per il trattamento dell’anemia renale, in una prima fase per i soli pazienti in dialisi, ma successivamente anche per i pazienti in terapia conservativa. Pazienti che a malapena sopravvivevano ,con una stanchezza indicibile e con innumerevoli sintomi, allora attribuiti all’intossicazione uremica, tornavano a vivere, vedendo sparire o almeno drasticamente ridursi i sintomi associati lamentati. Un’ iniezione di eritropoietina alfa nelle linee della dialisi 3 volte/ settimana bastava a procurare tutto questo benessere relativamente al passato!. Un’intuizione ad utilizzare  la somministrazione sottocute del farmaco anziché endovenosa, facilitò  l’estensione dell’uso del farmaco anche ai pazienti in terapia conservativa, in dialisi peritoneale e successivamente anche ai trapiantati di rene, qualora avessero avuto un deterioramento della loro funzione renale. La somministrazione sottocute si rivelò anche un inaspettato vantaggio per via di una più bassa concentrazione dell’EPO  nel sangue,( alti dosaggi potevano potenzialmente essere associati a danneggiamento dell’endotelio dei vasi  del sangue ,vene ed arterie)  ed una più prolungata persistenza, consentendo di ridurre la frequenza di somministrazione a 2 ed una sola volta alla settimana dapprima con l’eritropoietina beta,( nel frattempo autorizzata all’uso in terapia dopo l’alfa) e poi  con la stessa alfa, oltretutto con un risparmio del 30% della dose. Naturalmente  era necessaria una contemporanea somministrazione di ferro, non solo per la frequente carenza  nei pazienti con malattia renale, ma soprattutto per la necessità di produrre un’ ulteriore quantità di globuli rossi.

Visti i vantaggi, anche organizzativi, della riduzione della frequenza di somministrazione di Epo, l’industria farmaceutica ha poi sviluppato eritropoietine a vita più lunga , i cosiddetti “long acting” in contrapposizione ai “short acting”, aumentando il contenuto di zuccheri nella molecola di EPO alfa e realizzando quindi la darbepoietina con possibilità di somministrazione ogni una sino ad ogni 4 settimane. Con una peghilazione dell’EPO beta si + poi realizzato il farmaco conosciuto come CERA e che può essere somministrato ogni 2-4 settimane.

Come tutti i pazienti ben sanno sulla propria pelle, le eritropoietine sono farmaci eccezionali; tuttavia sono costosi, per cui, per ridurre i costi del trattamento, sono stati introdotti in commercio i biosimilari ( farmaci simili ma non uguali ai cosiddetti originator) al momento solo degli “short acting”. I biosimilari inevitabilmente presentano le limitazioni degli originator. Si era infatti inaspettatamente visto che una correzione parziale dell’anemia presentava minor effetti negativi, soprattutto cardio-vascolari, di una correzione completa sino a normalizzazione dei valori di emoglobina . Con l’intento di ridurre il rischio cardio-vascolare che si ha quando gli ESA vengono usati ad elevato dosaggio per cercare di raggiungere elevati livelli di emoglobina e per migliorare il trattamento dei pazienti che rispondono poco all’EPO, è stata sviluppata una nuova categoria di farmaci, con un diverso meccanismo d’azione rispetto agli attuali ESA, i cosiddetti stabilizzatori degli HIF, dei quali al momento solo il Roxadustat è approvato per uso clinico in Italia ma non ancora rimborsabile. Questi farmaci sono pillole per cui si assumono per bocca, simulano il meccanismo della ridotta pressione plasmatica di ossigeno, tipica dell’alta montagna, stimolando così la produzione endogena della eritropoietina da parte dei reni e ,in misura minore, dal fegato e, almeno alcuni ,sembrano favorire anche una miglior utilizzazione del ferro e una riduzione del LDL colesterolo ( quello “cattivo”), seppur associato ad una riduzione, anche se minore, del HDL ( quello “buono”). A testimonianza dell’importanza dello sviluppo delle conoscenze in questo settore, non solo per il trattamento dell’anemia ma anche in altri settori della medicina, tre medici hanno ricevuto il premio Nobel  per le loro scoperte. Gli altri effetti potenzialmente positivi o negativi di questi nuovi farmaci vanno ovviamente valutati nel lungo termine, così come le caratteristiche dei pazienti per i quali potrebbero  essere più indicati ( pazienti infiammati) o per i quali sono invece da usarsi con cautela ( pazienti con reni policistici, affetti da retinopatia, ipertensione polmonare o ipotiroidismo). Ovviamente le cautele d’uso nei pazienti a rischio di trombosi o affetti da neoplasie, specie se potenzialmente curabili, valgono per tutti questi farmaci, compresi gli attuali ESA.

In conclusione, questi farmaci orali stabilizzatori degli HIF hanno in generale mostrato pari efficacia e sicurezza rispetto agli attuali ESA e si aggiungono come valida alternativa terapeutica agli attuali farmaci per il trattamento dell’anemia dei pazienti nefropatici. Il loro uso nella pratica clinica quotidiana ci confermerà per quali pazienti sono più indicati e per quali meno indicati rispetto agli attuali ESA, considerando anche la via di somministrazione.